Laura Magni su Luci della Città
di Laura Magni
Parlare del progetto di Luci della Città è, prima di tutto, fare memoria di Stefano e del suo approccio all’impegno, alla cultura e alla vita.
Per chi l’ha conosciuto in quel periodo, significa ripercorrere un cammino lungo il quale il suo profondo senso di responsabilità non ha mai costituito un limite al suo essere progettuale e al dinamismo instancabile che lo ha contraddistinto, semmai una sfida personale quotidiana, quasi un metodo, una direzione di vita.
Allo stesso modo si può parlare del rigore con il quale affrontava i grandi temi politici, sociali, culturali e di come, con la medesima coerenza e semplicemente, sapeva farsi carico della vita di chi gli stava vicino, instancabilmente vòlto a interrogarsi su come mettere in luce i doni dell’una o dell’altra persona per condividerli in un percorso comune.
Un cammino in cui si è affermato con un assunto stilistico originale, libero e anticipatore, attraverso il quale hanno preso forma le sue idee e intuizioni.
Più che del progetto di Luci in sé, quindi, sarebbe bene chiedersi quale ne è stato l’insegnamento, attraverso il suo fondatore. Il progetto di Luci della Città non si è mai limitato, infatti, alla sola pubblicazione del giornale, né quest’ultimo è stato pensato unicamente in quanto tale, seppure foriero di un modo “diverso” di fare informazione.
Il progetto nasce da un’intuizione di Stefano: unire un impegno politico -‐ non schierato all’interno di partiti -‐ a un’idea di scrittura e di informazione che racchiudessero in sé presupposti di libertà per condurre un dialogo aperto e costruttivo, offrendo in tal modo un nuovo volto alla città e, nel contempo, un progetto per la cultura e per l’uomo.
Proprio per questo, infatti, il respiro della rivista non si è mai limitato a un orizzonte locale, seppure al suo interno comparissero anche argomenti tratti da spunti riguardanti la realtà ferrarese. Un segnale in questo senso viene dagli abbonati, il cui numero stabilizzatosi attorno ad un 60% delle copie stampate, ha visto crescere nel tempo la dimensione nazionale.
L’urgenza di mettersi in rete con il mondo, guardare oltre i propri confini, raccontare, portare a conoscenza -‐ unita a una sensibilità che ha permesso alle energie creative di esprimersi e crescere -‐, ha consentito alla rivista di raccogliere attorno alla redazione giornalisti, fotografi, grafici, artisti, letterati, musicisti e rappresentanti di aree di intervento per contribuire a tenere acceso e vivo il dibattito sulla città e sul suo futuro.
Quasi un’agenzia giornalistica (era un sogno comune), in sette anni di vita, 68 numeri e 30 inserti, attorno al giornale si sono radunati una decina di istituzioni, un centinaio di sponsor e oltre trecento collaboratori, alcuni dei quali hanno potuto sviluppare più compiutamente le proprie peculiarità formandosi attraverso questa scuola del “fare”.
Pensando a come siamo partiti, un gruppetto di sei o sette, alcuni dei quali li abbiamo persi nel giro di pochi numeri, posso affermare tranquillamente che con questa esperienza si è realizzato almeno in parte il concetto caro a Stefano del vivere “in prima linea”. Gli ostacoli continui avrebbero fatto cedere le migliori persone di buona volontà… Il giornale è nato, infatti, senza appoggi finanziari, editoriali, politici o promozionali: raccoglievamo noi stessi ogni mese i denari necessari alla stampa della rivista. La sede della “proprietà”, la Cooperativa culturale Charlie Chaplin, è arrivata un paio di anni dopo: i primi tempi ci incontravamo a casa dell’uno o dell’altro amico, le riunioni ufficiali si tenevano sulla moquette del salotto di Stefano e grazie a un editore che ci ospitava nelle ore in cui i suoi macchinari erano fermi, componevamo di sera fino a notte fonda un numero dopo l’altro e senza l’ausilio di strumenti di lavoro che paiono essenziali oggi, come computer, cellulari, tablet e rete internet. Ricordo inoltre che il giornale è stato sempre piegato rigorosamente a mano dall’intera redazione. Un’altra sfida, inoltre, ci ha caratterizzati: la volontà di attraversare ambienti piuttosto che rifugiarci nella sicurezza di un clan, scegliendo l’eterogeneità; dunque, senza una linea…
Con questi presupposti si è deciso quale dovesse essere la “formula” di Luci, inizialmente con poche certezze: la periodicità mensile, la foliazione. A questo proposito mi riferisco in particolare alla scelta del servizio fotografico a carattere monografico, immagini d’autore che correvano lungo le pagine della rivista come articoli trasversali a raccontare altre storie, intrecciate semanticamente ai testi scritti e un’attenzione particolare dedicata agli appuntamenti culturali, che spaziava dal cinema alla musica, dal teatro alle mostre agli incontri.
Il giornale ha guardato oltre i propri confini: luogo di confronto sui temi di attualità e su tematiche ambientali, politiche e culturali, “con l’intenzione di trasformare sempre di più Luci in una sede di confronto sulle prospettive del suo territorio, senza perdere di vista ciò che veniva prodotto, in termini di elaborazione ideale, lontano da Ferrara” (S.T., Luci n.63).
Dopo i primi numeri si è scelto di dare continuità a certi temi: i dibattiti sulle tossicodipendenze e sulla produzione musicale cittadina, la discussione sull’architettura e l’urbanistica della città, sulle “altre” religioni e, più in generale, sul rapporto tra città e cultura. Il giornale si impegnava ad occuparsi di attualità sociale, delle mostre, degli spettacoli, delle rassegne cinematografiche e di letteratura, puntando ad essere non solo un contenitore aperto, ma a diventare in qualche misura propositivo.
Per citare alcune inchieste: il réportage dal Nicaragua sandinista delle prime elezioni libere della storia, realizzato da Stefano pochi mesi prima della nascita di Luci; il Guatemala clandestino del futuro premio Nobel Rigoberta Menchu, i movimenti studenteschi degli anni Ottanta, il genocidio del Timor Est, la Polonia di Solidarność, la mobilitazione per Silvia Baraldini, i dibattiti di Medicina Democratica, gli speciali elezioni, il movimento per la pace (in particolare ricordo “Ferrara ripudia la guerra”); il servizio che ha mobilitato la città salvando il Teatro Verdi dal diventare un fast-‐food o un parcheggio, con un numero speciale ad esso interamente dedicato anche nella grafica e che ha acceso un lungo dibattito sulla gestione degli spazi riservati alla cultura; l’attenzione alla letteratura, con, ad es., contributi inediti di Zanzotto, Ramat, Antonio Porta, De Pisis, Yourcenar, Gutkin, Gilardi, la pubblicazione in Italia dei versi di Jack Hirschman…
Ricordo anche una tensione continua verso l’espressione artistica del servizio fotografico, al quale si dava sempre la massima rilevanza possibile, e che era spesso costituito da inediti reportage dal mondo e dai paesi in via di sviluppo, come fin dal primo numero il Nicaragua visto dall’obiettivo di Luca Gavagna, la Romania del dopo Ceausescu, o le splendide immagini di performances teatrali di Marco Caselli, Tony d’Urso, Masotti, i reportages di Dario Breveglieri, Benati, Monti…e gli inserti: Supplemento di Indagine a cura del Centro Carlo Castellani e del CIRCI, Graffite a cura dell’Ordine degli Architetti ferraresi, le letture dell’Istituto Gramsci, gli speciali del Centro Etnografico Ferrarese e altre iniziative culturali di carattere internazionale, tra cui spicca il volantino degli studenti di piazza Tian’anmen.
Alla distanza si comprendono meglio la qualità delle sue proposte e il perché di una sorta di “movimento culturale spontaneo” nato attorno ad esso. Le nostre energie si sono sempre dirette verso realizzazioni concrete e il progetto ha dato vita, nel corso degli anni, a iniziative tangibili in termini di produzione culturale. Molte realtà di ieri e di oggi parlano di Stefano: l’ideazione e la pubblicazione della prima guida di Ferrara, con stradario, percorsi urbani e itinerari turistici del territorio provinciale. La scuola di musica che ci ospita è nata da una serie di riflessioni compiute nel tempo con un gruppo di persone, in particolare con Ares Tavolazzi, allora nella redazione della rivista, sul tema della mancanza di strutture adeguate in cui la gente avesse l’opportunità di ascoltare musica di qualità al di là di quella classica e jazz, organizzare concerti, produrre video, proporre l’ascolto e l’insegnamento della musica. Il Buskers Festival, manifestazione internazionale che dal 1988 attira ogni anno migliaia di turisti, è nato e voluto da Stefano, che si è fortemente battuto per far approvare una consuetudine, quella dei musicisti di strada, un tempo energicamente osteggiata a livello locale.
Questo esercizio di memoria mi riporta anche alla sofferenza, le delusioni e le amarezze che negli anni Ottanta e in parte nei Novanta hanno accompagnato Stefano nel suo faticoso incedere verso altri luoghi e altre persone con le quali trovare una dimensione di unità, quasi come tutto questo fosse una piccola esperienza di provincia a cui nemmeno lui si riferiva quando parlava di sé nonostante, ne sono sicura, non abbia mai smesso di amarla, e a cui è doveroso oggi fare memoria e rivalutarne il senso, la statura e le opportunità nate da questa folle e splendida avventura, opportunità che sono sempre occasioni d’incontro.
E proprio per questo, sento nuovamente la necessità di ringraziare Stefano per quanto ha fatto, e anche a nome di Stefano che ne sarebbe contento, desidero ringraziare tutti gli amici e i collaboratori via via dispersi nel tempo ma testimoni di un annuncio e i numerosissimi sponsor e lettori che negli anni ci hanno aiutato e dato fiducia e hanno ritenuto di trovare in noi dei partner credibili per dare una eco alle loro voci.
Se l’ultimo editoriale di Stefano si sposa profeticamente con le sedie vuote dell’immagine di copertina del numero sessantotto di Luci, testimone critico e per molti versi scomoda esperienza nel panorama politico culturale dell’ultima metà del secolo scorso, vissuta a lungo perché autonoma, tutto questo ci sollecita a non lasciarci portare via la consapevolezza di determinare il nostro tempo e a comprendere che l’impegno personale sia una realtà possibile, un dovere etico il non lasciarci ripiegare sulle realtà che quotidianamente tentano di affossarci, darci la possibilità di vivere ancora oggi in pienezza. Se esiste un insegnamento di questa lunga e bellissima esperienza, anche per chi non l’ha conosciuto o per quanti l’hanno incontrato negli anni della “maturità”, direi questo: Stefano ha condiviso i suoi sogni con altri. Stefano ha saputo sognare, amare, lottare, vivere. E ci vorrebbe tutti così, come lui era: innamorati, generosi e onesti, tenaci e autentici, coraggiosi e liberi…
28 ottobre 2013
Laura Magni